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introduzione

Lucio Pandolfo Autoportrait avec appareil touristique

Io: Dove sono? Dove vado? Cosa fotografo?
Robbie: Sei qui.

 

In un'epoca non molto lontana — quando gli smartphone erano ancora fantascienza — mi capitava, di fronte a una bella inquadratura, di rimpiangere di non avere con me la mia macchina fotografica per catturare l'attimo sulla pellicola.
 

Per consolarmi, mi dicevo che quell'immagine sarebbe rimasta più facilmente impressa nella mia memoria. Pura illusione: nella memoria come nella riproduzione fotografica, c'è ciò che vediamo, ciò che immaginiamo, ciò che crediamo aver visto, il suo ricordo, e ciò che un'altra persona può percepire in quell'immagine.
 

Ceci n’est pas une photo*? Finita l'epoca in cui la fotografia era relegata a rappresentare una realtà oggettiva, descritta da Charles Baudelaire come l'umile serva delle scienze e delle arti, la riproduzione fotografica è allo stesso tempo copia e originale, potendo diventare una realtà distinta dall'oggetto che rappresenta.
 

Se attualmente, con i nostri smartphone, produciamo miliardi di selfie al giorno (cfr. Fotoromanzo), nonché innumerevoli e deformate riproduzioni dei capolavori esposti nei musei (cfr. Cannibalismo artistico), quali sono le immagini che hanno ancora un senso? Siamo arrivati alla concretizzazione ultima del «Senza sogno e senza realtà / (e) alle immagini siamo condannati» della canzone del situazionista Raoul Vaneigem?
 

Contrariamente alle foto-ricordo che riempivano i nostri album di carta e si tramandavano di generazione in generazione, i nostri scatti digitali, quasi mai consultati, sono ormai così numerosi e fragili che possono tutti scomparire al minimo urto del nostro smartphone o durante un blackout elettrico.
 

Più di cinquant'anni fa, Ando Gilardi, storico della fotografia (1921-2012), affermava che nel mondo esistevano più immagini di elefanti che elefanti vivi. Cosa direbbe oggi di fronte a questa immensa proliferazione di immagini?
 

Nell'incertezza della risposta a questa domanda, mi rifugio nel dubbio e nell'imprecisione. Nelle chimere, come in Flou & Superflou, dove l'allusione visiva invita l'osservatore a sviluppare la propria visione, la propria immaginazione; oppure registrando su sensore digitale la rarità di un colore come in Red on Film; o ancora, come in Fuori tutto!, nel rintracciare i resti moderni di un'estetica urbana di un passato recente.
 

Spensierati, possiamo sempre andare a prendere una boccata d'aria (cfr. En train de courir) correndo sul percorso della vecchia ferrovia che circonda Parigi, o guardare da molto vicino le imperfezioni dei muri della città immaginando paesaggi improbabili (cfr. Mur-morii).
 

Ma come ignorare questa terribile certezza, documentata in Misery in Paris, che questa è un'epoca difficile, se non insopportabile, per troppe persone?

 

* « Questa non è una foto? ». Allusione al quadro di Magritte, Ceci n’est pas une pipe.

fotobiografia

Photobio

«Dove bisogna andare per andare dove dobbiamo andare?»

Totò nel film "Totò, Peppino e i Malafemmina"

 

Tutto inizia negli anni ’70, con la piccola macchina fotografica di famiglia, a obiettivo fisso e mirino ottico. In bianco e nero, con la parsimonia imposta dalla pellicola, fotografavo amici e gabbiani, nuvole, mare e conchiglie.

Volendo perfezionare questa passione, nel 1980, ho seguito i corsi di fotografia a Palazzo Fortuny a Venezia, dove ho imparato a sviluppare in bianco e nero, scoperto la diversità degli stili fotografici e incontrato fotografi rinomati. E infine la soddisfazione di esporre la mia serie di foto sui turisti.

Molti anni dopo, nel 2018-2019, ho approfondito le mie conoscenze nella fotografia di studio e compreso l’importanza della fotografia contemporanea, durante i corsi del Comune di Parigi con Catherine Rebois. Questo periodo si è concluso con la mia partecipazione alla mostra di fine corso e a una collettiva sul tema La Citazione, organizzata dalla MPAA (Maison des Pratiques Artistiques Amateurs) del 14° arrondissement.

Dal 2019 al 2024 ho arricchito la mia esperienza partecipando agli Ateliers des Beaux-Arts di Parigi, diretti da Pharoah Marsan, Regina Versirius e Isabelle Levy-Lehmann. Questi atelier mi hanno permesso di lavorare su vari soggetti, studiare i grandi fotografi e alla fine, spero, sviluppare uno sguardo personale. Uno sguardo che può essere effimero, calcolato, opportunista o casuale, sfocato, inquadrato o fuori cornice, indiziario, documentario…
Poco importa, purché riesca a fissare ciò che desidero mostrare, emozionare e far riflettere.

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